TUTELA AVVERSO DIFFAMAZIONE SU FACEBOOK – Studio Legale Esposito Santonicola

A cura della dott.ssa Erica Rega

Facebook, l’altro mondo virtuale, in cui ognuno è libero di esprimere la propria opinione. O quasi… 

Nell’era digitale i social network consentono di coltivare i rapporti interpersonali e di tessere una rete di amicizie, coinvolgendo anche persone mai incontrate de visu. 

La socializzazione globale è, senza dubbio, necessaria, ma la sua estremizzazione – come ogni cosa – genera conseguenze inaspettate ed incontrollabili. 

Difatti, i social come Facebook diventano strumento attraverso il quale, con la stessa facilità che consente di stringere amicizie, si possono generare rivalità, insultare sconosciuti per l’aspetto fisico, gli orientamenti politici o sessuali, manifestare pensieri offensivi, soprattutto quelli che, ad alta voce, non si avrebbe il coraggio di esprimere. 

Tutto ciò perché esiste un’erronea convinzione d’impunità, tra i “leoni da tastiera” dell’epoca social. Si ritiene che offendere l’altrui reputazione sulle bacheche/gruppi Facebook, attraverso commenti screditanti, sia lecito, perché quei contenuti resteranno intrappolati in un’area “virtuale”, e che nessuna conseguenza possa discendere dal peso di determinate parole, filtrate dallo schermo del pc. 

Ma possiamo davvero dire tutto quello che ci passa per la testa, senza alcun filtro, sulla nostra bacheca social? È davvero possibile pubblicare commenti dal contenuto offensivo e lesivo dell’altrui reputazione e restare impuniti? La legge ci tutela da chi mina la nostra credibilità agli occhi, dell’indeterminata platea social, sia che ci metta la faccia o si celi dietro un account fake? 

La risposta è contenuta nel Codice penale, capace di conformarsi all’evoluzione dei tempi, adattando le fattispecie criminose, frutto dell’innovazione tecnologica, al contenuto precettivo delle sue disposizioni. 

In particolare, l’articolo cui far riferimento è il 595, comma 3, c.p., che disciplina la peculiare ipotesi di diffamazione, “aggravata dal mezzo della stampa o qualunque altro mezzo di pubblicità”. 

Preliminarmente, è utile specificare che il legislatore, nell’inserire tale previsione codicistica, ha deciso di collocarla nel Libro Secondo, Titolo XII “Dei delitti contro la persona”, Capo II “Dei delitti contro l’onore”, trattandosi di un reato che lede un bene giuridico, attinente alla persona, indefettibile, ossia la reputazione e la credibilità. 

Per aversi il reato di cui all’art. 595 c.p. è necessario che vi sia: 

  1. L’assenza dell’offeso;
  2. La comunicazione con più persone;
  3. L’offesa all’altrui reputazione.

Pertanto, il reato di diffamazione, nella sua forma semplice, si configura quando chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione

La pena base, prevista in questo caso, è la reclusione fino a 1 anno o la multa fino a 1032,00 euro.

Nella fattispecie aggravata, come previsto dal comma 3 dell’art 595 c.p., quando “l’offesa è arrecata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da 6 mesi a 3 anni e della multa non inferiore a 516 euro”.
È prevista, dunque, una pena maggiormente afflittiva per quanti commettano una diffamazione che, potremmo definire, “pubblicizzata”. 

La differenza di sanzioni tra le due fattispecie è giustificata dal fatto che, se nel primo caso l’offesa viene proferita innanzi a “più persone”, circoscrivendo in qualche modo l’offesa alla reputazione subita innanzi ad un numero delimitato di interlocutori, nell’ipotesi aggravata, in cui è pienamente rientrante la diffamazione su Facebook, il contenuto screditante è suscettibile di raggiungere un numero indeterminato e incontrollabile di soggetti! 

Per quali ragioni la giurisprudenza ritiene che la diffamazione su Facebook integri l’ipotesi aggravata di cui all’art. 595 comma 3 c.p.?

La Suprema Corte di Cassazione ha affermato che, quando una notizia viene immessa sui social media, la diffusione della stessa deve presumersi fino a prova contraria, “secondo un criterio che la nozione stessa di pubblicazione impone”, costituendo, quest’ultima, un’ipotesi di offerta in incertam personam, che implica la fruibilità delle notizie in maniera istantanea e da parte di un numero indeterminabile di utenti. 

Per quanto concerne, nello specifico, la diffamazione perpetrata attraverso la pubblicazione sulla bacheca del social network Facebook, integra la fattispecie aggravata dell’utilizzo del mezzo di pubblicità, “tenuto conto che la pubblicazione della frase diffamatoria sul profilo del social network … rende la stessa accessibile ad una moltitudine indeterminata di soggetti con la sola registrazione al social ed anche per le notizie riservate agli “amici” ad una cerchia ampia di soggetti”. (Cass. Pen. Sez. V, 14.11.2016, n. 4873) 

Ma quando un contenuto può ritenersi “DIFFAMATORIO”? 

È bene operare una distinzione caso per caso, in quanto se da un lato non possiamo, pubblicamente, proferire ingiuste offese all’altrui onore, dall’altro non ogni manifestazione di opinioni deve essere considerata lesiva dell’altrui reputazione.

La tutela della reputazione personale e dell’onore, bene giuridico presidiato dal perseguimento delle condotte diffamatorie, deve trovare un adeguato bilanciamento con un altro diritto fondamentale, ossia quello di manifestazione del libero pensiero, in tutte le sue specifiche declinazioni, quale, ad esempio, il diritto di critica, che trova un preciso addentellato costituzionale nell’art. 21 Cost. 

Il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo, che postula l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico, attraverso una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, che si sostanzi in una opinione, anche polemica o aspra, ma pur sempre genuina, continente e costruttiva. Pertanto, è indispensabile che sia sempre rispettato un nucleo di veridicità, posto che nessuna interpretazione soggettiva, fonte di discredito per la persona offesa, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio del diritto di critica, quando tragga le sue premesse da una prospettazione dei fatti opposta alla verità.

Riferire circostanze non coincidenti con la realtà dei fatti, su una piattaforma pubblica come Facebook, sicuramente reca un pregiudizio alla persona offesa, capace di lederne la considerazione sociale ad ampio raggio, trattandosi di una condotta potenzialmente idonea a raggiungere un numero indeterminato o, comunque, quantitativamente apprezzabile di persone. Allo stesso modo, mettere in dubbio l’etica di un professionista o di un’azienda, sulla base di mere illazioni, screditandone l’operato attraverso commenti pubblici, può ugualmente integrare la fattispecie di reato prevista e punita dall’art. 595 comma 3 c.p., in quanto costituente un attacco personale lesivo della dignità morale ed intellettuale. 

E ancora, la condotta di un soggetto che rivolga ad un altro accuse infondate o gli attribuisca epiteti offensivi (“ignorante”, “maleducato”, “rapinatore”) per mezzo di post o contenuti social, integra a pieno gli estremi della diffamazione aggravata, traducendosi in pesanti e pubblici attacchi che colpiscono la sfera professionale e privata della vittima, arrecandogli un danno all’immagine e all’onorabilità. 

Vi sono ipotesi in cui l’agente non indica espressamente, nel commento o post, sulla propria bacheca social, il nome del soggetto a cui rivolge le affermazioni infamanti. Anche in questo caso è assicurata la tutela in sede giurisdizionale per quanti, seppur non espressamente citati, siano vittime di implicite accuse screditanti? 

Mentre in passato, per ottenere il risarcimento del danno da diffamazione, era necessario specificare le generalità della vittima o riportare elementi sufficienti, tali da consentire agli altri di individuarla, con la sentenza n. 25420 del 26 ottobre 2017, la Corte di Cassazione ha affermato che, in tema di risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa, non è necessario che il soggetto passivo sia precisamente e specificatamente nominato. L’individuazione della vittima deve avvenire, in assenza di un’esplicita indicazione nominativa, attraverso gli elementi della fattispecie concreta (quali le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali), desumibili anche da fonti informative di pubblico dominio al momento del diffondersi della notizia offensiva, se la situazione di fatto sia tale da consentire al pubblico di riconoscere, con ragionevole certezza, la persona cui la notizia è riferita. 

In conclusione, le offese virtuali sono, a tutti gli effetti, offese reali, che integrano condotte perseguibili, punibili, risarcibili, in quanto la tutela, in sede penale e civile, è assicurata da una giurisprudenza consolidata ed uniforme. 

Lo schermo del pc non è lo scudo invalicabile che i “furbetti” della tastiera credono. 

Agire concretamente per ottenere la giusta punizione di quanti, più o meno consci di aver commesso un reato, ci offendono a ruota libera, pubblicamente, è il primo passo per rendere il mondo virtuale un luogo in cui, civilmente e nel rispetto reciproco, si scambiano e si incontrano opinioni.

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